Era una delle sfide più difficili e più stimolanti che avessi affrontato nella mia “carriera” di rigger. Erano più di vent’anni che mi dedicavo all’arte della shibari, con le mie compagne e con amiche che volevano provare questa esperienza. E avevo creato una routine che mi permetteva di procedere sempre in sicurezza, mettendo a mio agio chi decideva di offrire il suo corpo alle mie corde.
Questa routine prevedeva una comunicazione continua tra me e la donna che veniva legata: a ogni passaggio complesso, verificavo con attenzione che la mia lei fosse attenta e presente e che non provasse fastidio o dolore. E poi, ovviamente, stabilivamo insieme una safeword semplice da ricordare che avrebbe fermato il gioco in ogni momento.
Ma Lucia era muta: completamente, in seguito a una complicata operazione. Si esprimeva con la lingua dei gesti ed era in grado di farsi capire perfettamente. Ma da legata tutto sarebbe stato molto più complesso.
Aveva insistito tantissimo con me e con altri amici per provare anche questa esperienza: non era una novizia nel nostro mondo, ma di solito aveva un ruolo attivo. Era lei a dominare, non a essere dominata. E quindi voleva provare a essere dall’altra parte.
Avevo discusso a lungo della questione: io parlavo, lei scriveva oppure scrivevamo entrambi. E non era stato facile vincere le mie resistenze e i miei dubbi: non volevo rischiare di creare dei danni.
Lucia però non aveva paura e aveva insistito tanto da riuscire a convincermi: si poteva fare, potevamo trovare il modo di comunicare anche senza usare le parole. E alla fine avevo ceduto.
Avevamo deciso di provare a un piccolo play party: pochi amici con cui ci conoscevamo da tanto tempo. Ero io a volere la presenza di altre persone, non per avere un pubblico, quanto piuttosto qualcuno che fosse attento come me e potesse accorgersi di qualche problema che mi fosse sfuggito.
Ci eravamo sistemati nella postazione centrale, quella che offriva maggiore libertà di movimento e Lucia si era spogliata completamente. Avevo predisposto le mie corde e fatto scendere la carrucola in modo da poterla raggiungere senza troppo sforzo.
Nel momento esatto in cui avevo iniziato a far scorrere la corda lungo il suo corpo tutto intorno a noi era scomparso: sia gli occhi attenti degli spettatori, che le luci soffuse che illuminavano il loft. C’eravamo solo io e lei: e le corde a unirci.
Avevo iniziato a legare il corpo: partendo dall’addome, per salire lungo la schiena, sulle spalle e di nuovo davanti, intrecciando la corda con un complesso gioco in mezzo ai seni. Procedevo lentamente, in modo che lei potesse assaporare il piacere della corda centimetro per centimetro. E quando stringevo un nodo, per leggero che fosse, cercavo il suo sguardo, in attesa di vedere la luce dentro i suoi occhi. E non un moto di dolore o paura.
Il disegno che ero riuscito a realizzare sulla sua schiena era perfetto: ora dovevo scendere lungo le gambe, per poterla poi sospendere. Dopo un attimo di pausa, per permetterle di adattarsi al suo nuovo “vestito”, mi ero inginocchiato davanti a lei e avevo incrociato le corde, partendo dal pube per scendere fino alle caviglie.
Per poi risalire, dopo essermi accertato che la tensione sulle gambe fosse quella giusta, e tornare verso l’addome. Mi ero fermato di nuovo a guardarla: mi sorrideva, con un’espressione rilassata, tanto che mi ero concesso una carezza e un bacio leggero sulle labbra. Potevo continuare.
Dovevo stare attento nel preparare il nodo da collegare alla sospensione: doveva essere stretto, in modo da reggere il peso ed evitare cadute, ma non troppo, per non premere sull’addome.
Avevo chiuso e sciolto il nodo tre volte prima di essere completamente soddisfatto: e ogni volta avevo guardato Lucia, per rassicurarla. E per rassicurare me stesso che andasse tutto bene. Nemmeno per un attimo avevo visto il dubbio nel suo sguardo, che invece mi invitava ad andare avanti.
Quando ero stato sicuro avevo collegato la carrucola alla corda e avevo iniziato a sollevarla, mentre tenevo le sue gambe leggermente alzate. Si trattava di superare il punto di maggior resistenza, poi la carrucola avrebbe fatto il suo dovere. In altre occasioni ero stato più deciso nel dare lo strappo finale, ma questa volta mi ero mosso con attenzione, anche se la fatica era raddoppiata.
Ma per lei le sensazioni erano state rallentate e quindi godute fino in fondo: anche se dalla posizione in cui ero non potevo vedere il suo volto, ero sicuro che stesse provando l’ebbrezza di essere sospesa, leggera nell’aria. Non aveva voce, ma in quel momento il suo corpo, come una scultura di carne, era diventato la sua voce, con cui esprimeva davanti a tutti il suo piacere.
Avevo assicurato la corda e bloccato la carrucola, prima di allontanarmi leggermente per godere della mia opera d’arte. Era assolutamente perfetta: le gambe e il busto erano allineate, a formare una linea unica, mentre le braccia erano aperte e ricadevano verso l’esterno. Non abbandonate, perché Lucia era perfettamente sveglia e attenta, ma in posa, come due ali spiegate.
La testa era leggermente abbandonata all’indietro: un po’ forse per la fatica di tenerla dritta, un po’ per poter guardare davanti a sé, osservare i volti e le reazioni delle persone che assistevano a quello spettacolo.
Non avevo indugiato troppo: anche se in perfetta salute, una persona non può stare troppo a lungo in sospensione, senza un particolare allenamento. E non volevo che Lucia patisse nemmeno il più piccolo fastidio da questa sua esperienza.
Quindi mi ero avvicinato, prima sorreggendo il capo per un bacio leggero, poi sostenendo il suo peso su un braccio, mentre con l’altra mano slegavo rapidamente il nodo che assicurava la corda alla carrucola.
E lei si era abbandonata tra le mie braccia, proprio come un angelo caduto. L’avevo deposta a terra e mi ero inginocchiato accanto a lei, per godere ancora di qualche attimo di quell’atmosfera, di quella bolla che sembrava contenere solo noi due, prima di iniziare lentamente a sciogliere tutti i nodi.