Ho vissuto i primi anni della mia vita nel silenzio: quando i suoni hanno fatto irruzione nella mia esistenza, è stato un susseguirsi di paure ed emozioni. Ma la realtà è che l’assenza naturale di rumore, a cui la natura ha condannato il mio corpo, è ancora in grado di regalarmi una calma assoluta.
Basta togliere la batteria del mio impianto e di nuovo vengo avvolto dal silenzio, in cui sento soprattutto il rumore dei miei pensieri: lo faccio quando sono da solo. Oppure quando la mia padrona è con me.
Il mondo reale mi obbliga a sentire: per capire, interagire, lavorare. Ma con Lady Maya non devo fare tutto questo, non più. E non dover sentire i rumori mi permette di sentire più forte le sensazioni che mi regala.
Come quando decide di provare su di me una nuova frusta: le prime volte mi è piaciuto sentire lo schiocco, il rumore dell’aria attraversata dalla pelle e quello fatto dalla mia pelle quando ero colpito.
Ma mi distraeva: il rumore assorbiva in parte la sensazione che il mio corpo voleva trasmettere. Per questo le ho chiesto di provare senza: e lei ha promesso di pensarci. Da buona padrona.
E poi me lo ha concesso: in realtà, come è giusto che sia, mi sono dovuto guadagnare questa concessione, servendola in tutte le sue necessità. Come curo i suoi piedi e le sue unghie io, mi dice, davvero nessuno schiavo è in grado di farlo.
Mi ha portato nel suo dungeon: solo lei e io, perché questa esperienza doveva essere un regalo, non doveva essere condivisa con altri. Dovevo poterla godere fino in fondo.
Le luci sono quelle delle candele: rosse e nere, pronte per essere utilizzate per far cadere la cera bollente sul mio corpo, a bruciarmi, se la padrona lo desidera. E la croce di Sant’Andrea mi attende: già molte volte mi ha accolto, mentre la mia padrona mi usava o mi faceva usare da altri, a suo piacimento.
Mi spoglio, completamente nudo se non per il collare rosa che indosso quasi sempre: per questo preferisco le camicie e le maglie con il collo alto, mi permettono di nasconderlo agli occhi delle persone troppo curiose. In inverno una sciarpa lo protegge sempre: ma io lo sento e so che è il segno della mia devozione.
La padrona mi fa appoggiare con il viso rivolto verso la croce e comincia con la lenta e meticolosa opera di chiusura delle manette. Sono in cuoio, morbide ma realizzate in modo da poter essere strette completamente intorno ai polsi e alle caviglie: se anche dovessi svenire, mi lascerebbero sempre attaccato alle braccia della croce.
Mentre mi lega cerco di assecondare al massimo i suoi movimenti: è quasi dolce, quando finisce di legare lascia scivolare la mano morbida in una carezza, che dalla schiena scende verso i glutei. Poi, senza preavviso, la dolcezza si trasforma in fermezza, con un colpo secco della mano aperta sui glutei.
Non posso sentire il suono, ma sento il dolore: acuto e pungente, che risveglia i miei sensi dall’oblio di quella dolcezza. Poi, di nuovo il silenzio: non sento i movimenti e, alla luce delle candele, posso solo vedere l’ombra della padrona, senza capire quello che sta per fare. Ma mi piace: forse avrei dovuto anche farmi bendare, per aumentare ancora di più la mia capacità di sentire.
Chiudo gli occhi: non voglio correre il rischio di abituarmi all’oscurità e di poter distinguere meglio. E quindi capire cosa mi aspetta. Ora sono nel buio e nell’assoluto silenzio. Improvvisamente percepisco un movimento veloce nell’aria alla mia sinistra: troppo per essere un braccio, più probabilmente un colpo di frusta. Una prova, per sciogliere le spalle e per capire quanto davvero posso percepire.
Per fortuna mi sono imposto di rimanere immobile: non voglio che la mia padrona sia distratta dalle mie reazioni. Sto ancora compiacendomi di me stesso, quando sento il primo colpo, dritto in mezzo alla schiena.
È dolore puro: nulla ad anticiparlo, solo la scossa che dalla pelle viene trasmessa direttamente alla mia mente. È una frusta nuova, ne sono sicuro: o forse no, ma sono nuove le sensazioni che riesce a darmi.
Le frustate si susseguono con un ritmo preciso, non troppo lento, perché mi farebbe rilassare, né troppo veloce, perché sarebbe stancante per la mia padrona. Le braccia, di nuovo la schiena, i glutei, le gambe: nessuna parte del mio corpo è lasciata indenne dai colpi della frusta.
Non vedo ma posso immaginare la mia padrona, con la sua tuta nera e gli stivali con il tacco, che si sposta leggermente per prendere la mira, prima di sferrare i colpi: ma l’immagine, piano piano, diventa sfocata, in un caleidoscopio di luci e di ombre in cui il mio cervello sta trasformando le sensazioni che sto provando.
Mi sembra quasi di sentire ogni centimetro quadrato di pelle, come se stesse andando a fuoco. Poi le luci si fanno più forti, nel momento in cui il ritmo delle frustate si fa più veloce e più forte.
Mi lascio andare e un suono esce dalla mia bocca: non lo posso sentire, non capisco se è un gemito di dolore o un verso di piacere. Ma è qualcosa che non ho mai provato: e la mia padrona lo sa, perché ferma la frusta.
Ora percepisco solo il silenzio, fin quando le mani della padrona, di nuovo dolci, sciolgono le manette di cuoio: sento che sto per cedere, ma lei ha la forza di accompagnarmi delicatamente fino a terra, dove mi attende qualcosa di morbido.
Come morbido e fresco è l’unguento che le sue mani spalmano sulla mia pelle ferita: non ho ancora aperto gli occhi, lascio che ancora per qualche minuto siano le sensazioni che mi trasmette la pelle a dominare.
Lentamente, come se fossi cullato da una ninna nanna senza suono, scivolo in una sorta di sonno, mentre tutti i muscoli del mio corpo si fanno liquidi. E la mia mente si perde tra ombre e luci, nel silenzio più assordante che possa esserci.